Prima dell’arrivo della pandemia, il cosiddetto “smartworking” era poco utilizzato in Italia, valeva solo per poche categorie professionali ed era visto con più di una riserva da direttori del personale e manager. L’arrivo del lockdown ha costretto, spesso con difficoltà, a farci i conti e potrebbe aver modificato per sempre il modo in cui lavoriamo e in cui intendiamo il lavoro.
Da dove arriva lo smart working in Italia.
Il mondo del lavoro italiano è cambiato di fatto il 23 febbraio del 2020, con l’approvazione di un decreto legge. Per rispondere all’emergenza da coronavirus, rendeva automatico il ricorso allo smart working, o lavoro agile, per le aziende nelle zone a rischio che potevano svolgere attività a domicilio e a distanza. Fino a quel momento il lavoro a distanza era molto raro: era richiesto dal singolo lavoratore all’azienda e sancito con un accordo individuale, ai sensi della Legge 81 del 2017. Dopo l’annuncio del lockdown nazionale, il 9 marzo scorso, per molte aziende divenne l’unico modo per restare aperte. In pochi mesi dipendenti, manager e datori di lavoro ne esplorarono benefici, potenzialità e difficoltà. La situazione ora è estremamente variegata. Ci sono dipendenti felici per il tempo risparmiato negli spostamenti e altri sfiancati da un flusso di riunioni virtuali e pasti da preparare alla famiglia. Grandi aziende che non hanno mai riaperto gli uffici e altre medie e piccole che hanno chiesto di ritornare in sede all’attenuarsi dei contagi.
Un po’ di dati. Secondo i dati dell’Osservatorio smart working del Politecnico di Milano, dal 2013 al 2019 la quota di lavoratori in smart working è quasi quadruplicata, passando da 150mila persone a 570mila. Si trattava, però, soprattutto di telelavoro e lo smart working era visto come una concessione al dipendente. Spesso avversata dall’uso insufficiente della tecnologia, dall’assenza di digitalizzazione e da una questione culturale, che misurava il lavoro in base alla presenza e al tempo, più che ai risultati. «Prima della pandemia il panorama in Italia era drammatico, lo smart working era arretratissimo».
Le cose sono state stravolte dal lockdown.
Secondo una ricerca pubblicata da Microsoft, in seguito all’emergenza sanitaria la quota di imprese italiane che ha adottato il lavoro flessibile è passata dal 15 per cento del 2019 al 77%. Dati simili arrivano da una ricerca dell’ISTAT uscita a giugno. Il 90% delle grandi imprese italiane (cioè con più di 250 addetti) e il 73% delle imprese di dimensione media (50-249 addetti) hanno introdotto o esteso lo smart working durante l’emergenza. Contro il 37% delle piccole (10-49 addetti) e il 18% delle microimprese (3-9 addetti).
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Produttività e soddisfazione di chi lavora.
La grande scoperta del lockdown è proprio l’accresciuta produttività registrata da quasi tutte le aziende. Secondo la già citata ricerca di Microsoft, l’87% degli italiani ha riscontrato una produttività pari o superiore rispetto a quando lavorava in ufficio. «Mi dicono che la produttività sia cresciuta del 20%», spiega Rossi. «Si lavora di più, la mattina si inizia prima tanto non si deve prendere il treno, ci sono meno tempi morti e meno riunioni. Casomai lo smart working ha fatto emergere delle sacche di inattività che esistevano già prima ma erano solo meno evidenti».
Effetti sulla casa e sulla città
I benefit per chi lavora da casa.
C’è un ultimo discorso importante legato all’introduzione dello smart working ed è la concessione di bonus e benefit per chi lavora da casa. È vero che il dipendente risparmia in benzina, tessere della metro e pasti al ristorante. Ma è anche vero che consuma più elettricità, caffè, un pasto, deve pagare la connessione (se non ce l’ha già) e dotarsi dell’attrezzatura necessaria. Nei Paesi Bassi per esempio i dipendenti pubblici che hanno lavorato da casa riceveranno quest’anno un bonus di 363 euro. Alcune aziende offrono servizi di lavanderia porta a porta o altre convenienze per i lavoratori con figli.
Gli effetti sulle città.
Per finire, l’adozione dello smart working potrebbe avere delle conseguenze anche sull’organizzazione delle città in cui viviamo. A Manhattan molte grosse banche e società affittuarie di migliaia di metri quadri di uffici stanno progettando di ridurli. Con il rischio di lasciare grattacieli sfitti e trascinare nella crisi i bar, i ristoranti e negozi che gravitano attorno. In Italia non è ancora accaduto niente del genere anche se, dice Rossi, «so di alcune aziende che stanno riflettendo se rinnovare gli affitti e continuare i progetti di espansione».